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Le Lattughe Ripiene

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LATTUGHE RIPIENE
con Slow Food
Per quattro persone
Ricetta della Tradizione, originaria della Liguria
Ingredienti:
16 grandi foglie di lattuga
300 gr di magro di vitellone
200 gr di misto fra poppa e animelle
La mollica di un panino
½ cipolla
3 uova
1 carota
1 costa di sedano
Una manciata di prezzemolo
Vino bianco secco
Parmigiano Reggiano grattugiato
Brodo di Cima o Passato di pomodoro
Olio extravergine di oliva
Sale marino q.b.


Utensili di preparazione e presentazione
Un tegame antiaderente
Una terrina
Un coltello
Un cucchiaio di legno
Il tagliere
La mezzaluna
Il mortaio o un frullatore
Un canovaccio
Un tagliere
Una casseruola

Lattughe ripiene al pomodoro

Procedimento per la preparazione
Tritare la cipolla, il sedano, la carota e il prezzemolo e rosolarli nel tegame 
con po’ di olio extravergine di oliva.
 Unire le carni al soffritto, farle dorare e bagnare con il vino; 
lasciare evaporare il liquido, poi tritare finemente e 
aggiungere la mollica bagnata nel fondo di cottura. 
Pestare tutto con cura nel mortaio (o nel frullatore). 
Trasferire il composto nella terrina e aggiungere le uova, una manciata di Parmigiano
 e amalgamare bene, controllare ed eventualmente regolare di sale.
Lavare e scottare le foglie di lattuga, facendo attenzione a non lacerarle; 
passarle in acqua fredda e stenderle ad asciugare sul canovaccio, messo sopra al tagliere. 
Suddividere il ripieno su ogni foglia ben allargata, avvolgerla e chiuderla come un fagottino (eventualmente legare con un po’ di filo bianco). 
Immergere i fagottini ripieni nella casseruola con il passato di pomodoro
 (o il brodo di cima) bollente. 
Cuocere per circa dieci minuti e servire.

Lattughe ripiene in brodo

 Note:
La ricetta delle lattughe ripiene al pomodoro,
è stata realizzata durante un corso di cucina organizzato da Slow Food 
a La Spezia, che aveva come docenti Sandra Ansaldo e Gabriella Tartarini, 
entrambe impegnate anche nell'organizzazione degli Eventi Slow. 









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Scaloppina di Pescatrice al Pomodoro secco e Bottarga

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SCALOPPINA DI PESCATRICE 
AL POMODORO SECCO
E BOTTARGA
Con lo chef Giovanni Maggi
Per quattro persone
Senza Glutine
Ingredienti:
12 scaloppe di filetto di pescatrice (500/600 gr)
100 ml di Vermentino
4 pomodori secchi sott’olio
Olio extravergine di oliva ligure maturo Fratelli Carli 
Timo
Una grattugiata di bottarga di muggine o tonno
Pepe nero
Sale q.b.


Utensili di preparazione e presentazione
Un coltello
Una padella antiaderente
Pinza da cucina
Un cucchiaio
Il mestolo


Procedimento per la preparazione
Tagliare i pomodori a striscioline.
Asciugare con cura le scaloppe di pescatrice e rosolarle a fuoco vivace
 con poco olio extravergine di oliva su ambo i lati, sino a renderle dorate. 
Eliminare l’olio di cottura e bagnare il pesce con il Vermentino; 
lasciarlo evaporare per due terzi, unire un mestolo di acqua e i pomodori secchi tagliati precedentemente. Cuocere ancora a fuoco dolce per 5 minuti. 
Spargere un po’ di foglioline di timo.
Servire grattugiando su ogni scaloppa di pescatrice un pochino di bottarga
 e spolverando pepe nero a piacere.



Lo chef Giovanni Maggi







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La Salsa di Noci

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SALSA DI NOCI (Sarsa de nuxe)
Per quattro persone
Ricetta della Tradizione, originaria di: Genova
Ricetta Vegetariana
Ingredienti:
200 gr di gherigli di noce
10 gr di pinoli
2 fette di pancarré bianco
½ spicchio di aglio
Latte
Maggiorana fresca
 4 cucchiai di olio extravergine di oliva
Parmigiano Reggiano
Utensili di preparazione e presentazione
Una pentola
Un colino
Il mortaio o il frullatore
Un cucchiaio
Un coltello


Procedimento per la preparazione
Sbollentare i gherigli per due minuti in acqua bollente, colarli, 
pelarli e poi pestarli nel mortaio (o frullatore)
con l'aglio sbucciato e la mollica di pane, 
precedentemente ammorbidita nel latte senza crosta e ben strizzata 
(a me piace sentire anche i pezzetti di noci e una parte la trito un po’ più grossolanamente). 
Aggiungere le foglioline di maggiorana, continuando a pestare; 
incorporare l'olio a filo, fino ad ottenere una crema omogenea; regolare di sale.
 Mettere la quantità di salsa desiderata nella scodella dove andrà la pasta, 
aggiungere eventualmente un po’ di acqua di cottura e mescolare bene. 
Scolare la pasta e condirla con la salsa; servire con Parmigiano grattugiato.

La salsa che non usate subito, si può conservare 
per qualche settimana in un barattolo in frigo, con sopra un filo d'olio, 
ben chiusa con il tappo.







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I Pansotti

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PANSOTI IN SALSA DI NOCI
Per quattro/sei persone
Ricetta della Tradizione originaria di: Genova
realizzata dagli alunni @ Ipssar G. Casini di La Spezia  
Ricetta Vegetariana
Ingredienti per la sfoglia:
500 g di farina
3 uova
Sale q.b.
10 g di vino bianco o acqua
Ingredienti per il ripieno:
1 kg di preboggion (bietole/borraggine/erbette)
2 uova
200 g di Prescinseua o ricotta
50 g di Parmigiano Reggiano grattugiato
Noce moscata grattugiata 
Clicca qui la ricetta > La Salsa di Noci


Utensili di preparazione e presentazione
Un coltello
Un matterello
La spianatoia
Un tegame antiaderente con coperchio
Un frullatore
Una terrina
Un cucchiaino
Una rotella dentata tagliapasta
Una pentola
Uno scolapasta
Un cucchiaio di legno
Pellicola alimentare


Procedimento per la preparazione
Formare con la farina setacciata un mucchietto con un foro nel mezzo, 
versare le uova uno alla volta, facendole assorbire dalla farina, 
poi il sale e cominciare ad impastare,
 si dovrà ottenere un impasto morbido ed elastico. 
Avvolgere nella pellicola e far riposare.
Lavare bene il preboggion, sbollentare e strizzare le verdure, tritarle poi finemente. 
Passare il trito ottenuto in una terrina, unire la ricotta, aggiungere le uova, 
il Parmigiano grattugiato, la noce moscata; regolare di sale e amalgamare bene il tutto.
Stendere la sfoglia di 5 mm circa di spessore, si può fare col mattarello
 oppure con la macchina per la pasta. 


Ricavare dalla sfoglia tanti cerchietti usando un coppapasta, 
mettere al centro di ognuno un mucchietto di ripieno e, 
dopo aver inumidito un pochino i bordi piegare a metà la pasta, 
ottenendo una mezzaluna ripiena ben chiusa. 
Cuocere in abbondante acqua bollente salata. 
Scolare e condire con la salsa di noci e qualche fogliolina di timo o maggiorana. 
Disporre in ogni piatto e decorare con qualche gheriglio.


Note:
 Il pansotto o pansoto è il classico primo 'di magro' genovese, 
dalla forma di mezzaluna;
il ripieno è solitamente costituito dal preboggion, 
un insieme d'erbe che varia a seconda della zona della Liguria
 e alla stagione in cui viene preparato.
Le fotografie sono state fatte @ Ipssar G. Casini di La Spezia  
e la ricetta è stata realizzata dai ragazzi della classe III D
 a.s. 2012/2013.





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Le foglie che avvolgono...

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Foglia di vite

A proposito delle foglie che avvolgono...
di Gabriella Molli
Quando lessi che Archestrato di Gela raccontò in poesia delle foglie di fico con cui i tranci del pesce lama andavano avvolti prima di essere posti ad arrostire sulle braci, mi vennero in mente altre ricette in cui le foglie hanno una funzione importante: gli involtini di insalata lattuga della primavera (la ricetta di Gabriella Tartarini e Sandra Ansaldo in una lezione di cucina di Slow Food ne sono un esempio gustoso). Ma anche i “caponeti” di Arcola (foglie di cavolo verza ripieni).  E poi, a catena, gli involtini greci di riso nelle foglie di vite (Dolmathàkia me rizi). Insomma in cucina esiste il fascino goloso delle foglie che avvolgono.  E avvolgendo, mi sono chiesta, non è che cedono un po’ del loro umore, contribuendo a dare tono al piatto? A esaltare il pieno? E perché proprio queste foglie specifiche?

                            Genealogia dei sapori:
Foglie di fico, foglie di insalata, foglie di cavolo verza e infine foglie di vite. Consuetudine mediterranea che si allaccia alla mineralità della composizione chimica della pianta su cui compaiono. Prendiamo il caso dell’insalata lattuga degli involtini di primavera, che, racconta il conte Picedi Benettini, quando era piccolo erano offerti la mattina di Pasqua ai mezzadri della sua tenuta, come segno beneugurale. Il ripieno degli involtini di lattuga proposti da Gabriella e Sandra, è fatto con magro di vitellone, poppa e animelle, mollica di pane bagnata nel latte (o nel brodo di cima), uova, parmigiano.

                               La lattuga
Appartiene alla famiglia delle margherite del genere Asteracee.
Lactuga sativaè il suo nome scientifico. Le sue foglie nel momento in cui sono tagliate, emanano una sostanza liquida (linfa) simile al “latte”. Da ciò, LactugaLe foglie sono ricche di mineralità e hanno un tenue sapore amarognolo.  Il contrasto fra foglie e ripieno di cui sopra, è perfetto per creare armonie di gusto. Ma c’è forse anche un significato ancestrale, legato a simbologie di culti religiosi pre-cristiani. Quel latte che stilla, può aver suggerito suggestioni di vita. Così le foglie avvolgono un “dentro”. Come avviene per  il grembo materno.

                               Le foglie di fico
Stranamente anche le foglie di fico, quando si staccano, emettono una specie di latte. Fra le ipotesi della scelta in cucina per avvolgere, come consiglia Archestrato, tranci di pesce lama, c’è quella di dare un tono minerale al piatto. Ma un significato recondito ci conduce sempre a temi legati alla religiosità. Nell'Antica Grecia, si legge nel Dizionario dei simboli, dei miti e delle credenze di Giunti (Corinne Morel, autrice) il fico era l’albero sacro ad Atena, dea della saggezza. Dal punto di vista del gusto, le foglie di fico sono lievemente amarognole e l’unione con il pesce lama (molto dolce) risulta uno scambio in grande armonia. 

                                Il cavolo verza
Foglie di cavolo fanno da culla a un ripieno di bietole, uova, carne, mortadella. I “caponeti” di Arcola prendono sapore in un sugo leggero di cipolla e pomodoro (quest’ultimo, prodotto arrivato con Colombo). Ma si racconta di involtini di cavolo semplicemente “in bianco”, con maggiorana e timo a dare profumo. Anche qui occorre ricordare che le valenze minerali del cavolo (apportatore anche di benefìci di prevenzione dal cancro) sono a tutto favore del gusto del ripieno. E, come per le foglie di fico, possiamo aggiungere che la foglia di cavolo arreca in questo caso un apporto minerale non indifferente alla composizione. Ma ricordo che nell'antichità il cavolo era considerato come un “utero vegetale”, quindi apportatore di vita (nascere sotto un cavolo). Mangiare foglie di cavolo con un “dentro”, è da ipotizzare sia stata una richiesta di fecondità. 

                                Le foglie di vite
Le foglie sono tutt'uno con la pianta a cui appartengono. Nel caso della vite, hanno la stessa valenza del grappolo. I tralci di vite con grappoli e pampini erano un tempo assimilati con l’alloro, alla gloria, alle celebrazioni della vittoria. Nella composizione del piatto di involtini di riso le foglie di vite hanno una ricchezza di minerali che agisce, per un principio di peso della gradevolezza di un piatto, da bilancia equilibrante degli elementi del piatto. Che, fra l’altro, ha un ingrediente tenuto nella massima considerazione come apportare di fecondità: il riso.      







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Seppie in Zimino

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SEPPIE N ZIMINO
Per quattro persone
Ricetta della Tradizione, originaria di: La Spezia
Ricetta senza glutine
Ingredienti:
1 kg di seppie piccole e freschissime
25 gr di pinoli
15gr di funghi porcini secchi
3 pomodori maturi
1 costa di sedano
1 cipolla
1 mazzetto piccolo di bietola
1 spicchio di aglio pulito
1 peperoncino
5 cucchiai di olio extravergine di oliva
Sale q.b.


Utensili di preparazione e presentazione
Una terrina capiente con coperchio
Un tegame antiaderente
Un coltello
Una tazza
Un cucchiaio di legno


Procedimento per la preparazione
Mettere a bagno in acqua tiepida i funghi secchi. 
Spellare, lavare le seppie e tagliarle a listarelle. 
Lavare le bietole e tagliarle grossolanamente.
Tritare e soffriggere dolcemente nel tegame con l’olio evo, la cipolla, 
il peperoncino, il sedano, l’aglio e i pomodori pelati. 
Unire le seppie, e le bietole, rosolare e salare leggermente;
 far cuocere 10 minuti poi aggiungere i pinoli 
e i funghi rinvenuti, scolati e tagliati a pezzetti.
Bagnare con un po’ di acqua tiepida, coprire con il coperchio 
e far stufare a fuoco dolce per circa un’ora, girando ogni tanto; 
se dovesse asciugare troppo, aggiungere qualche cucchiaio di acqua tiepida
Servire caldo in zuppiera e accompagnare, 
se piace, a fette di pane casereccio tostato.











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Il granturco nella mes-ciua

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Il granturco nella mes-ciua
La cucina dei tempi di fame
di Gabriella Molli
Chi sa quanti faranno un balzo e grideranno: orrore! Ma è quanto ha raccontato una signora di Fabiano Basso, durante uno degli incontri predisposti dall’Ufficio Centri Sociali del Comune, anni fa in un mio progetto di ampliamento degli interessi degli anziani attraverso la cucina della tradizione. Progetto che ha riguardato dunque le tradizioni gastronomiche spezzine del passato, con particolare riferimento agli anni prima della guerra e durante. Ottanta sono le ricette raccontate e raccolte nei quattro Centri: Pitelli, Fabiano Basso, Melara, Mazzetta.  “In casa mia – ha spiegato la signora di Fabiano Basso – anche il granturco veniva inserito fra i semi da mettere nella mes-ciua perché lo avevamo nei nostri orti di Campiglia. Il grano invece doveva essere acquistato, costava molto e mancavano i soldi, ma l’accostamento del granturco con i semi canonici (cannellini, ceci) era davvero buono”.

Mes-ciua dissacrata ? No davvero: il racconto conferma l’ipotesi che questo piatto era un “ammazzafame” nato come cibo i cui ingredienti erano legati al QUI e ORA e ai semi che si avevano a disposizione. E forse quando non c’erano, è giusto ipotizzare che le donne andassero a cercarseli nella polvere del porto, come vuole la leggenda metropolitana della mes-ciua.
Cosa è successo nel dopoguerra? La mes-ciua ha assunto caratteri diversi: infatti dal dopoguerra in poi è diventata regina di solo tre elementi (cannellini, grano e ceci). Ormai questa consuetudine gastronomica dei tre semi si è affermata e tutti si sono adeguati, ma le conversazioni nei quattro centri hanno però evidenziato un’altra novità: “Noi nella mes-ciua ci mettevamo anche un pugnetto di borlotti e di cicerchie – è emerso in un incontro tenuto a Pitelli – e quando non c’era grano nella madia non avevamo soldi per comprarlo, per noi era mes-ciua lo stesso. Così, solo con borlotti e cicerchie, senza il grano”.
In tutti e quattro i centri è stato confermato l’ammollo separato di tutti i semi: due notti per i ceci, una notte per grano e cannellini (il farro era quasi introvabile, il grano saraceno quasi sconosciuto), cotti in modo e tempi diversi e poi ricomposti in un unico brodo per lo scambio (osmosi) dei sapori. Alcuni semi (in particolare i ceci) venivano cotti con cipolla, sedano e carota, che finivano “passati”. Il brodo di composizione della mes-ciua non era dunque affatto limpido. Altra novità raccontata: la mes-ciua veniva servita il giorno dopo, perché tutti i sapori si amalgamassero meglio, dicevano le donne.

Oggi c’è la tendenza a snellire i procedimenti di preparazione mettendo a bagno tutti i semi insieme, mettendo un pizzico di bicarbonato per agevolare la cottura e nessuno si straccia i capelli se arriva sul tavolo una specie di brodaglia trasparente in cui navigano gli amati semi. Ma l’antica mes-ciua del tempo passato, doveva essere un ottimo ammazza fame, sapiente e gustoso, c’era soltanto quello in tavola e la fame era tanta. Quindi nella mes-ciua finivano pezzetti di pane secco e se dentro un filino d’olio formava una specie di “ci”, che piacere. E c’è di più. Poiché i ceci hanno una specie di pellicina, venivano spesso “passati” come si faceva con i legumi del minestrone. La mes-ciua che diventava pannosa e densa era la preferita. 

Il lavoro condotto nei quattro centri sociali del comune capoluogo è servito proprio per capire come-cosa si mangiasse nell’anteguerra (e durante), e tutti (dico tutti) hanno parlato di fame nera e di quanto fu difficile sopravvivere. Ma nei racconti è emersa l’intelligenza della donna spezzina che si serviva dei pochi elementi a disposizione con la stessa finalità del convivio: nutrirsi e star bene. Poco nel piatto e mangiato lentamente, ma con la coralità della tavola, non importava se per cena c’era solo la “Begò”. E’ comparsa infatti nei racconti anche la grande frittella dal nome dimenticato: “begò” (acqua-farina-sale). Parliamo tanto di Testaroli e Panigacci e non ci ricordiamo di questa rotonda frittella cotta in due gocce d’olio, che era festa grande se veniva servita con gli erbi dei campi o i cavoli neri; festa ancora più grande quando veniva sfilettata sopra la parte bianca dei cipollini dell’orto. E quella verde che fine faceva? Serviva per una frittata o per fare il minestrone. Mentre oggi un “tac” pauroso del verduraio la taglia con il coltellaccio e finisce nella pattumiera. Fra l’altro, hanno raccontato, i cipollotti dell’orto venivano tenuti a bada con il fucile. La fame faceva venire tante tentazioni notturne. Una donna ha raccontato invece che vedeva ingrandirsi gli occhi dei bambini ammassati vicino alla rete, quando sua madre raccoglieva i cipollotti. Dobbiamo per forza definirla cucina povera, quella degli anni ’30-’40? 


Nel quartiere di Mazzetta è emersa una ricetta di “ravioli poveri” con il ripieno fatto di sole bietole raccolte nei campi, unite a pane cotto nel latte, a un uovo, e quando c’era, un po’ di Parmigiano (le cui croste filiformi erano la base di un brodo saporito e a chi ne toccava un pezzetto veniva guardato con invidia) grattugiato, ma non poteva mancare il timo. Come nascevano i ravioli poveri alla spezzina? Si faceva una sfoglia sottile sottile e via, si procedeva come per fare i “ravioli ricchi”.
Chiamiamola dunque cucina del caso o della necessità, ma non povera, la cucina spezzina degli anni ’30 -‘40. Gli incontri che ho tenuto nei centri sociali hanno dimostrato con quali strategie le donne del tempo di guerra potevano dire con orgoglio e a testa alta: oggi ho fatto i ravioli; e tra l’altro le donne lavoravano a coltello, con un risultato molto più gustoso rispetto a quello fornito oggi dai vari mixer.








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Lo Sciroppo di Rose

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SCIROPPO DI ROSE
Ricetta della Tradizione, originaria di: Genova
Ricetta Vegana
Ingredienti:
300 g di petali di rosa a scelta tra le varietà: 
Gallica, Rugosa o 
Muscosa (detta anche Chapeau de Napoléon)
 I fiori devono essere rigorosamente esenti da trattamenti chimici
1 litro di acqua
1 kg di zucchero di canna biologico
Se piace, un limone non trattato 
Procedimento per la preparazione
Pulire i petali da eventuali impurità, polvere o foglioline 
e metterli in infusione per 24 ore in acqua bollente. 
Colare il liquido (strizzare bene i petali), filtrare l’infuso e pesarlo: 
per ogni litro di prodotto aggiungere 1 kg di zucchero. 
Rimettere tutto sul fuoco e portare ad ebollizione.
Aggiungere se piace la buccia di un limone non trattato ben lavata 
(senza la parte bianca amara)
 Lasciare bollire per circa 15 minuti circa. Importante: lo sciroppo non deve “cuocere”, 
la temperatura deve essere raggiunta velocemente. 
 Imbottigliare lo sciroppo di rose a caldo per una migliore conservazione del prodotto. 
Far raffreddare le bottiglie coperte da un telo. 
Può cambiare colore e profumo; 
conservare al riparo da luce e calore e dopo l’apertura in frigorifero
Note:
Per la produzione dello sciroppo si usano solo i petali delle rose di tre qualità: 
la Gallica, la Muscosa, maggiormente utilizzata (detta anche Chapeau de Napoléon) 
e la Rugosa, anche se si sono aggiunte altre varietà per migliorare la fragranza del prodotto.
Le rose da sciroppo, adatte anche alla preparazione di confetture, conserve, 
zucchero rosato e ad essere candite, sono state sempre presenti negli orti,
 nei giardini, nei conventi genovesi, 
questi ultimi i maggiori fornitori dei confettieri locali. 

Sciroppo di rose  della Valle Scrivia
Presidio Slow Food
(foto Associazione Rose Valle Scrivia)

Nel genovesato, nel 2000 è nata l'Associazione Le rose della Valle Scrivia 
composta da aziende agricole e singoli produttori, assoggettati a un disciplinare 
per la coltivazione delle rose e per la produzione di sciroppi e altri derivati e
 finalizzata al recupero della produzione delle antiche cultivar Rugosa e Muscosa 
dell’Alta Valle Scrivia (entroterra di Genova). 
Lo sciroppo di rose della Valle Scrivia è un presidio Slow Food.
Per secoli le favorevoli condizioni ambientali della valle 
hanno permesso la diffusione di queste varietà, collegata alla produzione di preparati 
utilizzati anche per le loro proprietà officinali.
Di colore e profumo intenso, lo sciroppo di rose è legato alle cose di una volta, 
ai raffinati piaceri del passato, quando veniva bevuto allungato con acqua fresca 
d'estate per rinfrescare, o caldo d'inverno per lenire le bronchiti;
può inoltre sostituire lo zucchero in tè e tisane ed essere utilizzato sui dolci, il gelato, lo yogurt.

Sciroppo di rose Romanengo (foto Romanengo)

Nel suo sito, la dittaPietro Romanengo 
propone anche una ricetta per un cocktail fresco: il Pink Prosecco.
 “Basta versare un cucchiaio di sciroppo di rosa Romanengo 
e mixare con un buon Prosecco, decorando i flûte con petali appena colti”.





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Insalatina croccante del 1° Maggio

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INSALATINA CROCCANTE 
DEL 1° MAGGIO
Per quattro persone
Ricetta Vegetariana
Ingredienti:
1,5 kg di fave novelle
2 ravanelli
300 gr di formaggio semi stagionato di capra
Qualche rametto di menta
Olio extravergine d'oliva ligure
Sale e pepe bianco q.b.


Utensili di preparazione e presentazione
Un coltello
Un cucchiaio
Un tagliere
Una terrina
Un coppapasta
Quattro piatti piani


Procedimento per la preparazione
Sgusciare le fave. Pulire e tagliare a dadini i ravanelli. 
Tagliare a cubetti il formaggio di capra. 
Spezzettare con le mani le foglie di menta, tenendo a parte qualche fogliolina intera. 
Riunire tutti gli ingredienti nella terrina, condire con olio evo e sale. 
Infine disporre centralmente l’insalatina in ogni piatto, 
aiutandosi con il coppapasta. 
Decorare con le foglioline di menta intere,
spolverare appena di pepe bianco e servire.







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Quelli delle Cucine di Strada

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Quelli delle Cucine di Strada
Cibi – Tradizioni – Territori

 Ieri sera a Recco Daniela e Lucio Bernini, (Ufficio Stampa e Relazioni Esterne del Consorzio Focaccia Di Recco) ci hanno fatto conoscere il progetto“Quelli delle Cucine di Strada”: un gruppo di sei amici – produttori – promotori, che spesso si presenteranno insieme agli eventi gastronomici, perché con la comune passione per il cibo, il rispetto delle tradizioni e l’amore per il territorio di provenienza.
Tutti insieme da Vitturin ci hanno deliziato con le loro squisite specialità. Con Quelli di Recco e la celeberrima focaccia di Recco col formaggio, c’erano Esmeralda ed Egle (Quelli di Palermo), con le arancinette, le panelle (parenti della nostra panissa fritta), i cannolicchi siciliani; Zè Migliori (Quello di Ascoli), con le olive all’ascolana e i fritti marchigiani (tra cui la crema fritta, simile a quella che si prepara in Liguria); Paolo e Salvatore – Io mangio & bevo parmigiano (Quelli di Parma), con torta fritta, anolini in sorbir, salumi e cibi di strada parmigiani; l’Associazione “Quelli della bombetta” provenienti dalla Puglia, con le bombette della valle      d’Itria; Leonardo Torrini (Quello di Firenze), con lampredotto e trippa fiorentina. 
  


- Siamo un piccolo gruppo di persone che ci mettono la faccia ed il massimo impegno per divulgare il messaggio di tradizione, storia e cultura che è contenuto in un piatto, in un vassoio, in un cartoccio o avvolto in un semplice tovagliolo. Storciamo il naso quando ci dicono “street food”, preferiamo chiamarlo cibo di strada, non proponiamo “take away” ma offriamo prodotti da asporto, non confezioniamo le nostre specialità in “box o food-pack” ma li poniamo in scatole e sacchetti, non “reinterpretiamo” un piatto tradizionale ma lo eseguiamo come tramandato da anni, talvolta da secoli.
A giudicare dal successo della serata di presentazione, prevedo che “Quelli delle cucine di strada”, sarà un gruppo destinato ad allargarsi e le richieste di partecipazione agli eventi aumenteranno sicuramente.



Il Polpettone di Fagiolini

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POLPETTONE DI FAGIOLINI 
Per quattro/sei persone
Ricetta della Tradizione, originaria di: Genova
Ricetta Vegetariana
Ingredienti:
300 gr. di fagiolini
600 gr. di patate
3 uova,
60 gr. Parmigiano grattugiato
Olio extravergine di oliva
1 spicchio d’aglio,
5 gr. funghi secchi (facoltativo)
80 gr. pane grattugiato
Maggiorana qualche rametto
Sale q.b.


Utensili di preparazione e presentazione
Un coltello
Una pentola
Il pelapatate
Una padella
Un tegame rettangolare da forno antiaderente
Una forchetta
Procedimento per la preparazione
Spuntare e lavare i fagiolini. Pelare e tagliare a cubetti le patate. 
Lessare le verdure in abbondante acqua salata; scolare e tritare grossolanamente.
Nella padella stufare dolcemente nell'olio evo l’aglio tritato
 e i funghi (già ammollati) tritati.
Unire patate e fagiolini e fare rosolare per 4-5 minuti, 
schiacciandoli con i rebbi della forchetta.


Lasciare intiepidire e aggiungere il formaggio, 
le uova leggermente battute, maggiorana e sale.
Amalgamare con cura fino a ottenere un composto omogeneo. 
Regolare eventualmente di sale.
Ungere con l’olio l’interno di un tegame, 
spolverarlo col pane grattugiato e versarvi il composto.
Livellare, cospargere anche la superficie di pane grattugiato e irrorare con un filo d’olio;
 con i rebbi della forchetta creare delle righe percorrendo in diagonale l'impasto.
Cuocere in forno a fuoco medio (200°) per circa 25 minuti.
Quando la superficie sarà leggermente dorata e abbrustolita, 
sfornare il polpettone e far intiepidire a temperatura ambiente.








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Polpettoni e polpette

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Polpettoni, polpette. Ed è tutto Mediterraneo
di Gabriella Molli



 Ogni volta che penso all'intelligenza della donna che ha creato polpettoni e polpette, mi viene in mente con quanta sapienza ha agito. Le carni dure andavano ammorbidite, la lunga cottura non sempre serviva. E allora dopo la lunga cottura (con dentro le erbe magiche che davano sapore e toglievano le “puzze” della carne), ecco il lavoro nel mortaio o dentro una pietra cava. Battere e girare, battere e girare...il primo polpettone è nato così e poiché, quando “ipotizzo” dei comportamenti gastronomici, trovo sempre sulla mia strada chi mi accusa di visionarietà, mi servo delle parole della Reay Tannahill per far capire come procedo: in assenza di documentazione da poter esaminare e studiare, faccio leva su testi, quindi come si fa all'università, sui libri. E, sulla linea che lei adotta, do una interpretazione del corso probabile degli sviluppi di un procedimento o di una situazione. 
 "Per certi periodi ho dovuto colmare alcuni vuoti della documentazione storica sulle informazioni disponibili, circa il CORSO PROBABILE DEGLI SVILUPPI: un metodo deplorato da molti storici accademici". tratto dal libro “Storia del cibo” (Rizzoli, 1973, pag 9)
Quindi ora posso proseguire. Polpettoni e polpette sono allineati sulla tecnica dello sminuzzare, in modo da rendere gli ingredienti di facile assemblaggio, procedimento spesso agevolato dall’aggiunta delle uova. Il polpettone con i fagiolini di Daniela è un vecchio piatto della cucina di casa spezzina e si allinea con la serie delle preparazioni che fanno leva sull’orto di casa. Molto spesso più fazzoletti di terra che orti. Ma provvidi per rendere variata e leggera la cucina del quotidiano. Per prima cosa voglio far riferimento a un’operazione che non si fa quasi più: adottare le mani come impastatrice dei vari ingredienti. Ci si affida al robot, ma l’azione delle dita è più leggera e ottimizzante. E’ la stessa operazione che le donne spezzine del primo Novecento ancora facevano per condire l’insalata. Provare per credere, ovviamente prese le adeguate misure igieniche. Questo non vuol dire che dobbiamo tornare indietro, ma solo che i mezzi attuali ci confortano nella fatica, ma non assolvono al compito massimo della osmosi fra le sostanze che ispirano i cibi. Qui si sfiora un tema profondo: quello delle energie.


Sui trucchi
Mia madre mi diceva che non salava i fagiolini perché hanno già il loro “sale”. Tanto un po’ di sale lo devi aggiungere quando impasti. Mi diceva. E qui il bisticcio è forte con quello che mi hanno detto dopo: il sale messo all’inizio salva il verde dei fagiolini. C’è un altro fattore su cui bisogna far leva: le cotture. E’ perfettamente inutile andare a comprare i fagiolini del giovedì al mercatino dei produttori magnifici della Val di Vara e, a casa,  metterli a cuocere dimenticando che la croccantezza se è indispensabile per gustarli in insalata, diventa assolutamente di rito nel “lessare” le verdure che dovranno entrare nel circuito del ripieno della cima (eh già, le mie vicine di casa di via Privata Cieli negli anni Cinquanta, in stagione,  mettevano i fagiolini anche nella cima, come li mettevano nel polpettone).
Il perché
La storia di non far lessare troppo i fagiolini sta nel fatto che, prima di tutto non dobbiamo permettere che i minerali e le sostanze proteiche finiscano nell’acqua scolata e quindi nel lavello. Poi perché come è nel caso del polpettone (o della cima) vuol dire farli sottostare a una cottura prolungata.
E ora una considerazione antropologica...
o quasi: il polpettone era considerato il piatto del lunedì. Vale a dire che veniva fatto con la carne del brodo della domenica, dove finiva quella che i livornesi chiamano “la carnaccia”: punta di petto, ossette, pezzi durissimi di carne, ammassi informi di nervetti. Tutto questo ovviamente è scenografia di una cucina di casa non borghese, dove la scelta era rigorosamente di prima qualità: tutta la carne veniva servita con una salsiera ricolma (per la gioia dei ragazzini) della famosa salsa verde spezzina.
Un’ultima annotazione di carattere antropologico: il polpettone del lunedì (e se non era polpettone erano polpette) vedeva accanto alle fette “sottili” ben allineate nel piatto oblungo, i famosi sottaceti della padrona di casa. Eh, sì, perché tutte le donne se li preparavano a settembre con cura maniacale. Poche usavano l’olio (non a diposizione di tutti) ma l’aceto, che fra l’altro insaporisce in modo aperitivizzante cipolline, cetrioli, peperoni, melanzanine genovesi, cimelli di cavolfiore, carote a bastoncino, e lascio alla fantasia delle donne quale altro elemento aggiungere. Io, per esempio, impazzivo per i sedanini, che mia madre smerlava con uno strumento.
C’è un perché in questo abbinamento
I sottaceti vanno mangiati con molto pane per neutralizzare il tono acido dell’aceto. Ma questa operazione risulta tremendamente buona e quindi assolve lo scopo dell’alimentazione del quotidiano: togliere la fame attraverso il gioco del gusto. Se non è intelligenza questa.   


  

La Torta Mazzini

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TORTA MAZZINI
Per sei/otto persone
Ricetta della Tradizione, originaria di: Genova
Ingredienti
Per la farcitura di mandorle:
85 gr di mandorle pelate
85 gr di zucchero
2 uova freschissime
1 limone non trattato
50 g di zucchero a velo
Burro per la tortiera o carta forno


Per la pasta sfoglia veloce: 
(ma potete anche usare quella già pronta)
200 gr di ricotta di pecora o mista
120 g di burro
250 g di farina 0 tipo Manitoba
1 pizzico di sale fino, oppure se è per una preparazione dolce, 
un cucchiaino di zucchero
Utensili di preparazione e presentazione
Una terrina
Il matterello
La spianatoia
La frusta
Un cucchiaio
Un coltello
Un mortaio o frullatore/mixer
Una tortiera


Procedimento per la preparazione
della pasta sfoglia veloce
Nella terrina mescolare ricotta e burro a temperatura ambiente; 
schiacciare bene con la forchetta e aggiungere la farina. 
Impastare bene, formare un panetto morbido, avvolgerlo nella pellicola 
e farlo riposare 1 ora e ½, circa in frigorifero.
Stendere la pasta sulla spianatoia infarinata e tirarla col mattarello; 
piegarla in 3 e ristendere col mattarello, poi girarla, 
ripiegarla in 3 e ristenderla, ripetere per 3-4 volte. 
Avvolgere la sfoglia nella pellicola 
e far riposare nuovamente nel frigo per almeno ½ ora.


Procedimento per la preparazione
Accendere il forno a 180°; 
sminuzzare al coltello poi pestare, o passare al mixer le mandorle
 (facoltativo se finemente o no, io preferisco sentirne la croccantezza); 
con la frusta sbattere i tuorli con lo zucchero, unire le mandorle tritate, 
la scorza grattugiata (facoltativo) e il succo del limone;
 infine aggiungere mescolando delicatamente gli albumi montati a neve ben ferma. 
Riempire con questo composto la pasta sfoglia tirata e stesa sulla tortiera imburrata
 (o foderata con la carta forno), spolverare di zucchero e cuocere a forno moderato per 30 minuti. 
Una volta tiepida cospargere di zucchero a velo.




Note:
Di questa torta Giuseppe Mazzini (detto Pippo) era talmente ghiotto 
che in una delle lettere che inviò alla madre Maria Drago (1834-46), da Grenchen in Svizzera 
dove era esule e clandestino, riportò la ricetta perché la provasse.
Ecco la ricetta originale:
“Prima di dimenticarmi, voglio mantenere la mia promessa. Eccovi la ricetta che vorrei faceste e provaste, perché a me piace assai, traduco alla meglio, perché di cose di cucina non m’intendo, ciò che mi dice una delle ragazze in cattivo francese: Pelate e pestate fine fine tre once di mandorle, tre once di zucchero fregato prima ad un limone, pestato finissimo. Prendete il succo di un limone, poi due gialli d’uovo, mescolate tutto questo e muovete, sbattete il tutto per alcuni minuti, poi sbattete i due bianchi di uovo quanto potete: “en neige”, dice essa, come la neve, cacciate anche questi nel gran miscuglio, tornate a muovere. Ungete una “tourtiere”, cioè un testo da torte, con butirro fresco, coprite il fondo della tourtiere con pasta sfogliata, ponete il miscuglio nel testo, su questo strato di pasta sfogliata, spargete sopra dello zucchero fino e fate cuocere il tutto al forno
Giuseppe Mazzini
foto di Domenico Lama da Wikipedia 





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Prescinséua tradizione e modernità

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Prescinséua tradizione e modernità
Ieri ho avuto la fortuna di partecipare alla finale (presso il Museo Luzzatidi Genova) del Concorso "Prescinséua tradizione e modernità", sponsorizzato da Centro Latte Rapallo - Latte Tigullio  in collaborazione con l’Istituto Alberghiero Nino Bergese , che ha premiato la migliore ricetta creata dai ragazzi delle terze classi con uno dei formaggi più antichi e caratteristici della Liguria: la Prescinséua. 


La giuria era composta da Giampaolo Belloni, chef del ristorante Zeffirino  
e “La cucina di Gian Paolo” di Pieve Alta, Andrea Cabella, presidente sezione Confindustria 
Industria Alimentare, Rocco Garretta, esperto di pasticceria, 
Mario Restano, responsabile marketing di Centro Latte Rapallo, Giovanna Rosi, giornalista, 
Antonio Todde, scrittore ed esperto d’arte e... dalla sottoscritta :) 
In gara gli studenti delle terze classi degli indirizzi Gastronomia e Pasticceria
(sezioni A, B e C) impegnati nell'ideazione e realizzazione del piatto più originale
 (a scelta tra antipasto, primo secondo o dolce) a base della tipica quagliata ligure.
Non è stato per niente facile giudicare i 6 piatti finalisti  e stabilire una classifica generale:
 i futuri chef ci hanno veramente messo in difficoltà.  
Dopo aver degustato i piatti presentati dai ragazzi 
ed aver valutato la relazione del piatto, l'uso di ingredienti del territorio,
il senso estetico e il gusto, abbiamo annunciato la vincitrice.


1. Primo classificato con “menzione speciale” Cheese cake alla Prescinsèua e fragole 
di Caterina Romeo, classe terza C.


2. Secondo classificato Fagottino di verdure e fonduta di Castelmagno
  di Simeone Bassan, classe terza B.


3.  Terzi classificati a pari merito, in ordine di preferenza della giuria: 
- Barchette di frolla con spuma di Prescinsèua e lamponi (Martina Rusca terza C)
- Mezzelune di magro con pesto di carciofi (Giordana Spataro terza A)
- Bocconcini di pollo con noci e Prescinsèua (Henry Neira terza A) 
- Ripieni rustici (ma delicatissimi) alla genovese (Viktor Brazhda terza B)
Coordinatore del progetto il Vice Preside dell’Istituto Professor Falcone
 insieme al Professor Maurizio Sentieri.
La Prescinsêua (chiamata anche quagliata, o cagliata, genovese o ligure) 
è un prodotto tipico caseario della provincia di Genova; 
ha una consistenza a metà tra lo yogurt e la ricotta, un sapore acidulo e viene utilizzata
 per la preparazione della torta Pasqualina, di molte torte salate liguri e dei Barbagiuai
 (squisiti ravioli di zucca fritti).Si pensa sia un prodotto arrivato a Genova dall'Oriente, 
prende nome dal caglio o presame (presù in genovese), si ha notizia per la prima volta nel 1383; 
dal 1413 una legge della Repubblica di Genova indicò la Prescinséua come unico omaggio
 che i genovesi potevano fare al Doge. Un tempo veniva principalmente utilizzata
 per realizzare la celebre focaccia al formaggio di Recco, 
ma data la scarsa produzione casearia, è ormai generalmente sostituita
 con lo stracchino o la crescenza.

Focaccia al formaggio con Prescinséua







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Carbonara con Asparagi Violetti

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CARBONARA CON ASPARAGI VIOLETTI
Per quattro persone
Ricetta Vegetariana
Ingredienti:
350 gr di spaghetti
4 uova di pollaio freschissime
300 gr di asparagi (io ho usato l’Asparago Violetto di Albenga)
già puliti e scottati
100 gr di Parmigiano grattugiato
80 gr di petali di Parmigiano
Olio extravergine di oliva
Pepe bianco
Sale

Asparagi Violetti di Albenga

Utensili di preparazione e presentazione:
Un coltello
Una pentola grande
Un colapasta
Un tegame antiaderente
Un piatto fondo
Una frusta
Un cucchiaio e una forchetta.
Quattro piatti


Procedimento per la preparazione
Mettere la pentola, per cuocere la pasta, sul fuoco con abbondante acqua salata. 
Tagliare gli asparagi a pezzettini, lasciare le punte un po’ più lunghe 
e metterne a parte 12 per la decorazione dei piatti. 
In un tegame scaldare due/tre cucchiai di olio extravergine di oliva e un cucchiaino di burro, 
aggiungere gli asparagi e far insaporire per 5 minuti; regolare di sale.
 Sbattere le uova, unire il Parmigiano grattugiato e mescolare bene; 
versare la crema ottenuta nel tegame con gli asparagi tiepidi. 
Cuocere gli spaghetti, scolarli al dente (tenere a parte un po’ di acqua di cottura) 
e versarli subito nel tegame con la crema e gli asparagi. 
Amalgamare aggiungendo se necessario un pochino di acqua calda di cottura della pasta.
 Impiattare: aiutandovi con il cucchiaio, arrotolare e sistemare al centro del piatto
 due o tre forchettate di carbonara agli asparagi, decorare con le punte tenute a parte, 
qualche petalo di Parmigiano e una macinata di pepe bianco.








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Il Pesto da Le Erbe con Le Cinque Erbe

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Daniela e il pesto secondo Roberto Panizza, 
una gara in un giardino spezzino
 di Gabriella Molli
 Sono stata felicemente in giuria in una gara di pesto al mortaioCi sono eventi che lasciano dentro una grande gioia. Per il modo con cui si svolgono, per l’ambiente, per i personaggi. Ebbene quello che ho vissuto in un giardino spezzino in un tardo venerdì pomeriggio molto afoso, mi ha fatto vivere un’esperienza culturale davvero speciale. Esperienza legata a Daniela Vettori (il personaggio), a un luogo magico (il giardino del negozio Le Erbe di via Manin a La Spezia), a un gruppo di persone che stavano “condividendo” l’esperienza di fare il pesto con il mortaio, con il piacere primario dello stare insieme. 


Con un’atmosfera che di solito non si percepisce in una gara gastronomica. Persone che mi hanno fatto non solo gioire della loro “gioia”, ma anche vivere in una specie di scenografia teatrale che avrebbe meritato un ripresa cinematografica. A cominciare dai due personaggi dietro un grande bancone stile grande cucina: bellissimi nel loro abbigliamento fra il cuoco e il sommelier. 


Grandiosa anche la figura della “grande madre”, Maria Luisa Buffatto, che accoglieva gli ospiti, a cui non ho potuto non riservare molti complimenti per la sua corte di figli, generi e nipoti, e per quell'atmosfera così singolare che sembrava un set cinematografico. Gli occhi hanno percepito subito l’arredo della grande tavolata del giardino: i mortai allineati, 
le ciotoline in verde color basilico, i tovaglioli in tinta. 
I grembiuli con la scritta in verde, i cappelloni bianchi stile cuoco. 


Tutto era stato predisposto con cura per la lezione di Daniela, che segue le metodologie di esecuzione  secondo le istruzioni di Roberto Panizza, che organizza una gara mondiale di pesto al mortaio a Genova. Daniela ha avuto il piacere di classificarsi terza in uno dei dieci gruppi che si sfidavano per la finale, alla Gara 2014Uno dei mortai arrivato dall'Ottocento sembrava un pezzo da museo: una bellezza incredibile della forma più alta e bombata, un pestello di raro concetto, fatto in modo diverso rispetto ai canoni correnti: più piatto e più congeniale a una rotazione morbida. 


Che dire della metodica di esecuzione? Procedimento lento di Daniela, spiegazioni semplici e molto dirette per agevolare quei gesti calibrati e metodici che sono alla base della salsa che è un vanto ligure. Domande-risposte tutte funzionali alla riuscita di quel capolavoro che a mio avviso sa più di rito tribale che di rito gastronomico. E alla fine, la difficoltà di scegliere il vincitore. 


Ma Ilaria Maccione ha incantato la giuria per le armonie della sua preparazione. Un lavoro di scelta molto difficile: è occorsa una concentrazione non da poco per riconoscere quei giochi di sapore che connotano un buon pesto. La nota d’ambiente che più ha catturato le mie narici è stato il profumo del basilico misto all'aglio. Unito a quello dei fiori e delle piante del giardino delle Erbe, ha creato infatti una specie di incanto aromatico che ha reso l’esperienza molto particolare.


Ecco la ricetta che Daniela Vettori ha consegnato a ogni partecipante.
RICETTA DEL PESTO GENOVESE AL MORTAIO PER IL CAMPIONATO MONDIALE
 Ingredienti
4 mazzi (60-70 g. in foglie) Basilico Genovese D.O.P., garanzia della tipicità di profumo e sapore
30 g. Pinoli nazionali
45-60 g. Parmigiano Reggiano Stravecchio grattugiato
20-40 g. Fiore Sardo grattugiato (Pecorino Sardo)
1-2 Spicchi d’Aglio di Vessalico (Imperia)
10 g. Sale Marino Grosso di Trapani
60-80 cc. Olio Extra Vergine di Oliva “Riviera Ligure” D.O.P., dolce e fruttato, esalta il profumo del Basilico e del condimento
Preparazione
Ingredienti pesto: Il Mortaio di marmo e il Pestello di legno sono gli attrezzi tradizionalmente usati per preparare il Pesto Genovese.
Bisogna lavare in acqua fredda le foglie di basilico e metterle ad asciugare su di un canovaccio senza stropicciarle.
Nel mortaio si pesta uno spicchio di Aglio insieme ai Pinoli.
Una volta ridotti in crema, si aggiungono alcuni grani di Sale e le foglie di Basilico non pressate a riempire la cavità. Si pesta il Basilico con un dolce movimento rotatorio del pestello sulle pareti. Ripetere l’operazione.
Quando il Basilico stilla un liquido verde brillante, aggiungere i formaggi, Parmigiano Reggiano e Fiore Sardo.
Versare a filo l’Olio Extra Vergine d’Oliva Riviera Ligure D.O.P., ideale per sposare tutti gli ingredienti senza sopraffarli.
La lavorazione deve terminare nel minor tempo possibile per evitare problemi di ossidazione.


Ed ecco ora una delle ricette più significative che ho trovato trascritta a pagina 476 del libro
 “La pasta. Atlante dei prodotti tipici”, edito da Rai-Eri
nel 2004, a corredo della voce “trenette”.

basilico di Pra a foglia piccola
aglio a piacere
pinoli rigorosamente toscani
pecorino sardo e parmigiano di media stagionatura
come si fa
le foglie devono essere trenta e non più (pulite con un panno umido e non lavate
vanno pestate con l’aglio nel mortaio unendo un cenno di sale grosso 
che contribuirà a mantenere il verde tenero
gli ingredienti vanno “sfregati” sulle pareti per ottenere una crema
ora è giunto il momento dei formaggi grattugiati sul momento (altrimenti si ossidano)
e poi dell’aggiunta nel mortaio dell’olio, ligure e dolce, ovviamente a filo e senza fretta. 
Dolcemente, per rafforzare quella cremosità 
che rende un capolavoro di gusti, il pesto ligure.
  





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Le acciughette di Armida

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LE ACCIUGHETTE DI ARMIDA
Direttamente dallo spettacolo teatrale comico scritto e interpretato
la ricetta in dialetto di Armida, 
per preparare le acciughe fritte ai vostri Carmé ;)


Carmé me porta er pesce tutte le mattine. Me telefona
- “ Mida, che te le porto due acciughette? Che me e friggi?”
- “eh ma Carmè... fa un po' come vuoi”.... 
non sta bene nà donna che incoraggia n'uomo.
Sempre farci credere che giè lui che cià l'iniziativa.... 


Arriva con il sacchettino, io ce le prendo, le lavo, le pulisco,
 devi star attenta che non te se spaccano quando le apri nel mezzo, 
poi le metto né la farina 


e le butto nell'olio, bello bolente se no te restan molle.
 Poi le tiro su, le scolo e ce le servo. 


Lui se setta à tavola e mi guarda fare, me sorride. 
Se serve un po' de vin della sua campagna e poi quando gè metto le acciughette ner piatto, 
ci viene un'acquolina, si vede dagli oci, però m'aspetta sempre prima de cominciare.

Uh! ce facciamo certe scorpacciate di acciughette....


VECCHIA SARAI TU! video promo from YouTube

Ho conosciuto Antonella Questa su Twitter, circa due anni fa e mi ha fulminata!
Non si possono descrivere la bravura, l'energia infinita, l'intelligenza 
di @antnqu (il suo nome sui social), bisogna assolutamente
andarla a vedere. I suoi spettacoli fanno bene a noi donne e aiutano
gli uomini a capire il nostro mondo ricco di mille sfaccettature.
Si ride, si riflette e ci si sente meno sole.
Spesso le chiedo: 
- Ma come fai ??? Io morirei sul palco, a recitare
tutta sola, così... e poi non potrei mai ricordare tutte le
battute di tre spettacoli addirittura
(Stasera Ovulo, Vecchia Sarai Tu! e il nuovissimo Svergognata),
  che mi dimentico un nome in due secondi !!!
E lei con un sorrisetto compiaciuto:
- Figurati, è solo questione di allenamento, Vettori. 







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Acciughe impanate e fritte

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ACCIUGHE IMPANATE E FRITTE
Ricetta dei Bagni Virginia
Per quattro persone
1kg di acciughe freschissime liguri
2/3 uova freschissime
un po’ di pangrattato
olio extravergine di oliva q.b.per friggere
(in alternativa olio di arachide)
pepe bianco, se piace
sale q.b.
Utensili di preparazione e presentazione
un colapasta
una terrina capiente
una frusta
un piatto
una padella con i bordi alti per friggere
una paletta forata
un coltello
carta paglia (o assorbente)
piatti piani


Procedimento per la preparazione
Pulite le acciughe, staccate la testa, spinatele ed apritele a libro,
lavatele sotto l’acqua corrente e mettetele nel colapasta.
Sbattete l’uovo con la frusta, aggiustate con un pizzico di sale
 (e se piace una macinata di pepe bianco).
Mettete nel piatto il pangrattato.
 Scaldate l’olio nella padella.
 Passate velocemente le acciughe una alla volta nell’uovo sbattuto,
 poi nel pangrattato ed infine nell’olio caldo.
Giratele da entrambi i lati e quando sono dorate, trasferitele sulla carta paglia
e  spolveratele con un po’ di sale.
Impiattate con zucchine trombetta appena scottate
 e tagliate a striscioline sottili
o con un'insalatina di stagione.

Fiorella e Patty


Prelibatezze liguri ai Bagni Virginia dì Loano







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Acciughe indorate e fritte, mi pare Mediterraneo profondo

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Acciughe indorate e fritte, 
mi pare Mediterraneo profondo
 di Gabriella Molli
Direi cibo di strada, le acciughe indorate e fritte. Da mangiare con il sorriso guardando il mare. La semplicità e la storia sono nel piatto. Non ci sono le acciughe fritte fra le 99 ricette impedibili da salvare nel Mediterraneo che si trovano nel libro di Enrico Gurioli e Alessandro Molinari Pradelli “Il mare in cucina” (Gribaudo, 2010). Ci sono acciughe “condite”, “crude”, “marinate”, alici “sperone” che sono quelle che vivono in profondità assieme agli scampi. Ma no, le acciughe indorate e fritte non sono citate dai due autori. Eppure il fritto è molto mediterraneo. Trascrivo quanto afferma Giovanni Ballerini nel libro “La cucina dei numeri primi” (Orme/Tarka, 2014). Il fritto italiano è un’eredità greca. Il mondo greco, nella sua grande estensione e nel corso dei secoli, mostra attenzione e gradimento per un tipo di cottura dei cibi che possiamo identificare con il fritto e la frittura. Alessandro d’Afrodisia, commentatore d’Aristotele del II-III secolo dell’età corrente, precisa che i cibi fritti sono cotti dal calore esterno secco del fuoco che riduce il liquido posto nella padella (olio) a vantaggio del cibo che lo assorbe. Per questo il fritto si oppone al bollito”. 
Acciughe, dicevamo, indorate e fritte. Come dire pesce azzurro ritenuto “povero” dai più, rivalutato dall’olio. Che mi pare opportuno rapportare a un uso prettamente di casa del pescatore, le cui donne sapevano bene che il buono doveva essere in tavola ogni giorno. E le acciughe indorate e fritte sono decisamente rivalutate con questo tipo di cottura. Ebbene, con le acciughe si friggono anche i “pescetti” intrappolati nelle reti, in un mix di gusti che appaga le papille. Pesci liscosi, è vero, ma con una carne dal sapore pieno. E che grazia anche le lische e le teste. Lo dico con riserva perché so che fanno arricciare il naso a tanti. Ci sono voluti anni prima che io scoprissi il valore gastronomico delle teste dei pesci. In Provenza mi sono fatta servire una “mostruosa” testa di pesce nobile che ho piano piano degustato con molto piacere. Alla fine, inaspettatamente, i vicini di tavola (provenzali doc) sono scoppiati in un applauso Qualche volta nasce l’esigenza di mantenere la frittura di pesce azzurro per più giorni. Così, come ai tempi dei Romani era arrivato dall’Oriente il “garum”, salsa oggi improponibile per i toni forti dati dalla combinazione di aceto caldo, erbe aromatiche e interiora di pesci, arrivò anche lo scapece, termine usato ancora nel Sud Italia, di chiara origine araba.
Quello che sulla costa ligure viene definito “scabeccio” (c’è chi lo scrive con una c sola) è una eccellenza. Voglio raccontare una ricetta che ho raccolto negli anni Sessanta a Lerici. Ricetta che adoro e che è diventata un mio cavallo di battaglia.



scabeccio de anciue
(ma anche scabeccio di lacerti, o sgombri)

 Ingredienti per 4 persone
 un kg di acciughe appena pescate (non devono avere del rosso sulla testa),
andate al mercato prestissimo
una carota (qualcuno ne mette due, addolciscono)
una costa di sedano
due cipolle bianche (oppure rosse di Tropea)
due foglie di alloro
olio di frantoio
500 g di buon aceto bianco (ma c’è chi ne mette tre quarti)
uno spicchio di aglio
rosmarino
un cucchiaio di zucchero
peperoncino, se piace

Come si fa
 -tagliare le verdure a striscioline
-metterle ad appassire in una padellona in olio con tutte le verdure e gli odori
-farle “appassire” lentamente con lo zucchero fino a quando le fettine di cipolla sono trasparenti
-introdurre l’aceto con un bicchiere ben pieno di acqua
-state preparando un decotto che va portato a ebollizione per tre-cinque minuti
-lasciar riposare
-friggere in padella con olio le acciughe ben pulite e asciugate
-metterle su carta paglia (scottex) a perdere olio in eccedenza
-comporle delicatamente sovrapponendole dentro una terrina dai bordi alti
-incorporare il buon decotto dai mille profumi emanati da tutte le erbe e gli odori
-lasciar riposare un giorno (c’è chi lo fa per 36 ore) in luogo fresco
-servire freddo


La cosa più bella è servirle come antipasto, ma in qualsiasi momento della giornata sono un rompidigiuno godurioso. Amato, dicevamo, da coloro che mangiano slow e amano i gusti forti. Meglio se si usa aceto di ottima qualità. L’aceto è una perla quando si cucina. Quindi lo scabeccio è un piatto che costa. 



Cheesecake alle Ciliegie con Prescinséua

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CHEESECAKE ALLE CILIEGIE
CON PRESCINSEUA
Per otto persone
Ingredienti per la base:
200 gr di biscotti tipo Digestive
100 gr di burro
Ingredienti per la crema:
450 gr di Prescinséua (formaggio tipico genovese) o ricotta
3 vasetti di yogurt bio alla ciliegia
150 di zucchero
12 gr di gelatina in fogli
2 cucchiai di confettura di ciliegie
Per la copertura:
20 ciliegie circa
Zucchero a velo
Utensili di preparazione e presentazione
Una tortiera apribile diametro 24 cm
Il mixer
Un cucchiaio
Una forbice
Carta forno
Due terrine
La frusta
Una ciotola
Un pentolino
Un coltello liscio e affilato


Procedimento per la preparazione
Mettere i biscotti digestive nel mixer e tritarli finemente; 
trasferirli in una terrina e unire il burro fuso. 
Versare questo composto nello stampo a cerniera con il fondo foderato di carta forno
 e con l’aiuto di un cucchiaio stendere e premere bene sul fondo
 così da ottenere una base compatta e liscia; 
porre lo stampo in frigo per almeno mezz'ora in modo che la base diventi solida.
In una terrina lavorare a crema, con la frusta, prescinséua (o ricotta) e zucchero,
 unire i vasetti di yogurt e mescolare bene. 


Mettere in ammollo i fogli di gelatina (o colla di pesce) in una ciotola 
con acqua molto fredda per qualche minuto, finché non diventerà morbida. 
Intanto mettere a scaldare in un pentolino due cucchiai di confettura di ciliegie 
(attenzione non deve bollire); unire e sciogliere la colla di pesce ammorbidita
 e strizzata e mescolare bene per scioglierla completamente; 
lasciare intiepidire e poi aggiungere al composto di formaggi mescolando per amalgamarlo. 
Versare la crema nello stampo sulla base di biscotti rassodata; 
livellare bene la superficie e mettere la tortiera in frigorifero
 per almeno due ore affinché la crema alla ciliegia si rassodi. 
Prima di estrarre la torta dal frigorifero, preparare la copertura finale, 
denocciolando e tagliando a pezzetti le ciliege. 
Trascorso il tempo necessario, sformare delicatamente la cheesecake alla prescinséua 
staccandola, prima di aprire la cerniera, con un coltello liscio e affilato; 
servire a fette spolverate di zucchero a velo. 
Conservare la cheesecake alle ciliegie in frigorifero.


 Note:
La cheesecake si può fare anche con altri tipi di frutta. 
Visto che siamo all'inizio dell'estate ho pensato ad una versione "light",
se non avete problemi di linea, potete sostituire 200 gr di
prescinséua (o ricotta) con la panna montata.






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